Descrizione
«Scrivendo su Violenza nell’architettura, Aimaro Isola va alla ricerca delle “radici violente che sono state, nel tempo, all’origine dell’abitare” e le individua nel sacro, più precisamente nel sacrificio rituale. È questo, come ha mostrato René Girard, l’atto fondatore di una comunità. Ciò che spinge gli abitanti della selva a stringere un patto che non solo li lega tutti fra loro ma li lega anche, ciascuno, alla divinità, è l’uccisione di una vittima su cui vengono scaricate le forze disgregatrici (le colpe) ed è perciò fatta strumento di salvezza. È nascosta nell’origine, la violenza del sacro, il sacro come veicolo e antidoto della violenza. Aggiunge Isola: là, presso l’origine era l’architettura. A rendere possibile quel gesto, quell’atto fondatore. Come immaginare altrimenti che con figure architettoniche l’atto di immolazione della vittima? Si pensi ad esempio alle piramidi, che sono ciò che resta dopo che le pietre servite per il linciaggio hanno formato un tumulo e coperto la vittima, di cui finiscono con l’essere la tomba. Ma si pensi anche a un altare, a un tempio… Isola tuttavia segue Girard solo fino a un certo punto, per discostarsene in modo particolarmente significativo. Mentre secondo Girard il nesso di violenza e sacro è celato nell’ordine delle cose “fin dalla fondazione del mondo” ed è destinato a restarvi e a governare in modo occulto le azioni degli uomini, senza che si veda come spezzare quel cerchio infernale (neppure il cristianesimo sembra in grado di afrlo, dal momento che il sacrificio di Cristo smascherando la logica del sacrificio ne rende impossibile la riproposizione ma con ciò priva l’uomo dell’ultima difesa dalla violenza e la rende endemica), invece secondo Isola il nesso di violenza e sacro non è eterno, non è necessario, perché nella storia c’è un lento lavoro inteso a scioglierlo e a liberare il sacro dall’abbraccio mortale con la violenza. Questo lavoro è l’architettura a compierlo. L’architettura era là: là dove la vittima veniva sacrificata. Però non solo là dove bisognasse predisporre la scena sulla quale il crimine potessevenir trasformato in rito salvifico. Ma anche là dove fosse possibile, e anzi lo sia sempre di nuovo, volgere ad altro (addirittura all’Altro) quello sguardo che il potere meduseo della violenza inchioda inesorabilmente alla pietra, al fondamento pietroso dell’essere. Le colonne che trasformano il tempio, da tumulo piramidale che era, in spazio chiuso e insieme aperto sl cielo, sono le pietre che, osserva Isola, dovevano servire alla lapidazione e invece sono state lasciate cadere, volgendo la tensione dal conflitto alla riconciliazione, dal basso verso l’alto, dal cuore di tenebra alla luce. Lo stesso movimento si lascia cogliere nel passaggio dal tempio alla cattedrale. E poi anche, imprevedibilmente, ovunque “un pezzo di materia” sia riscattato dalla gravità, dalla pura e semplice ripetizione dell’identico, e offerto al gioco liberatorio del differire e del trascendere. In questo senso l’architettura e anzi il progetto architettonico si configura agli occhi di Isola “come speranza cosciente, come felicità e quindi rifiuto della violenza, dell’oblio e del lutto”». (Dalla postfazione di Sergio Givone)